domenica 24 aprile 2016

Dall'homo sapiens all'homo hortoressicus


          Un paio di milioni di anni fa, quell’ominide che poi sarebbe diventato uomo, decise di scendere dagli alberi e di andare a vivere sul terreno. In realtà la decisione fu un po’ lunga a prendersi, solo una decina di milioni di anni (erano quelli, in quell’epoca felice e lenta, i tempi dell’evoluzione), ma fu un passaggio di importanza fondamentale per almeno due validi motivi: in primis, l’ominide perse quel suffisso ”pithecus” che lo accomunava, anche se a ragione, alla scimmia, in secundis, razzolando sul terreno, quell’essere imparò a costruire alcuni semplici utensili che gli consentirono di nutrirsi di spoglie animali, tuberi e radici.
          Divenne pertanto habilis e per la prima volta si fregiò del titolo di “homo”. Il passaggio da una dieta essenzialmente erbivora e frutticola ad una alimentazione onnivora, secondo recentissimi studi, portò ad un aumento delle capacità encefaliche, quindi del volume del cervello (ca. 1.000 cc) e della statura al punto che furono maggiormente specializzate le funzioni della struttura fisica: le gambe si svilupparono per sostenere il corpo e correre, le mani per prendere e manipolare, il busto si erse per guardare più lontano, in poche parole, l’homo da habilis divenne erectus.
          L’homo erectus, avendo una maggiore capacità intellettuale, necessitava di maggiore energia e quindi di nutrirsi meglio: cacciava in gruppo anche prede grandi e soprattutto cominciò ad utilizzare il fuoco per cuocere il cibo e riscaldarsi.
          Seguendo le migrazioni degli animali, l’erectus si spostava e migrò dall’Africa verso l’Europa e imparò a sagomare pietre e ciottoli per realizzare semplici armi, utilizzando utensili di legno e di osso.
          Siamo a circa 500.000 anni fa, l’homo occupava ormai gran parte dell’Europa, cominciò a costruirsi dei rifugi in legno e a cacciare animali con l’uso di armi a propulsione, come le lance; l’alimentazione stabilmente onnivora e le migliori condizioni di vita consentirono l’aumento della statura e un ulteriore sviluppo cranico che raggiunse un volume pari al nostro.
          200.000 anni fa in Europa si trovava l’homo sapiens neanderthalensis, o uomo di Neanderthal, con il quale si ampliò il sentimento sociale: le tribù, meglio strutturate, avevano tradizioni proprie, curavano gli anziani e seppellivano i morti; svolgevano forse pratiche rituali.
          Circa 90.000 anni fa, comparve l'uomo moderno, l’homo sapiens sapiens, che un poco alla volta assimilò le popolazioni dell'uomo di Neanderthal.
          Il sapiens sapiens era in grado di lavorare ossa e corna da cui otteneva, tra l'altro, aghi e arpioni per la pesca. Sviluppò un senso artistico, testimoniato da numerosi ritrovamenti di pitture rupestri, statuette di animali e figure femminili. 
           Il resto è storia recente, con un volume di cervello di oltre 1.350 cc, il sapiens compie balzi lunghissimi lungo la via dell’evoluzione: sviluppa un linguaggio, impara a commerciare, addestra il cane, dipinge sulla roccia e finalmente 10.000 anni fa impara l’agricoltura e l’allevamento; l’uomo diventa stanziale e nascono i primi villaggi.
          

5.000 anni fa l’homo comincia a fondere i metalli e a scrivere: comincia l’era moderna.
           Con la certezza del cibo in ogni stagione, grazie all’agricoltura ed all’allevamento, con la capacità di conservarlo e cuocerlo diversamente che sul semplice fuoco con i vasellami, l’homo sapiens principiò a strutturare diversi modi di prendere il cibo: crudo ma condito, cotto al fuoco, bollito, affumicato, essiccato, sviluppando anche diversi modi di insaporirlo e soprattutto di modificarlo realizzando anche pietanze non presenti spontaneamente in natura, come il pane.
          Gli umani sono gli unici esseri viventi che possono definirsi "buongustai". Gli animali si nutrono, gli uomini mangiano, trasformano i cibi, li modificano e ne estraggono sapori, profumi, raggiungendo spesso risultati impensabili per il palato.
          L’homo quindi diventa “gastronomicus”, cioè mangia non solo per nutrirsi ma anche per il piacere del palato e ciò non deve stupire perché la ricerca del “bello” e del “buono” ha da sempre caratterizzato l’umanità.
          L’uomo nel mangiare cerca il buon “gusto” un coacervo di sensazioni che colpiscono dapprima con il sapore, sensazione sensoriale della lingua, ma anche con il sapere, cioè valutazione di ciò che piace o non piace, di ciò che è buono o cattivo, da ciò che è commestibile o tossico.
          Il gusto pertanto non è più solo una realtà soggettiva e incomunicabile, ma collettiva e condivisa; un’esperienza di cultura, frutto di una tradizione e di una estetica che la società ci trasmette sin dalla nascita.
          Il cucinare è di fatto un’arte le cui tecniche vengono trasmesse nei secoli prime oralmente, per tradizione come accade anche oggi in famiglia, e poi per iscritto attraverso le “recepta” che verso la metà del XV secolo assunsero il significato attuale.
          Quello che colpisce nei ricettari antichi è che essi spesso parlano di arte coquinaria, arte quindi della valorizzazione del cibo e del riconoscimento della perizia dell’operatore destinata, spesso alla mensa principesca.
          La preparazione dei cibi, essendo un’esperienza collettiva, prese due strade diverse, la prima, semplice e frugale, destinata ai poveri e ai contadini, si riferiva alla facilità di reperire i prodotti in loco, la seconda, destinata ai ricchi e benestanti si orientò dapprima alla crapula e poi alla ricerca dei cibi sempre più rari, raffinati e di conseguenza costosi.
Homo gastronomicus esageratus
          Con il crescere del benessere, sempre più diffuso, la cucina ricca ed abbondante prende piede anche nella piccola borghesia; se ne appropria l’industria alimentare che la diffonde, per emulazione, anche ai ceti più bassi ai quali viene destinato il cosiddetto “cibo spazzatura”; l’homo gastronomicus”, spinto dalle lusinghe di una pubblicità tendenziosa, tende ad ingozzarsi di cibi di ogni tipo al solo scopo di esibire la conquista di un benessere ormai raggiunto.
          L’uomo diventato obeso, poco attraente, rifiutato dagli stilemi di una società sempre più di apparenza che di sostanza, spinto da un’industria che prima lo spinge a rimpinzarsi di tutto e successivamente a schifare il proprio aspetto, si butta, con il pentimento, alla ricerca di una soluzione.
          L’homo gastronomicus non si è estinto ma ha generato la sottospecie homo dieteticus, l’uomo del mea culpa che si distingue per la conoscenza enciclopedica di tutte le diete che sono state consigliate sia da medici che da astute campagne pubblicitarie industriali.
          Se si escludono i regimi alimentari per quelli che soffrono di particolari patologie, le diete servono solo al gusto estetico della piacevolezza della persona e ovviamente non vi si bada a spese.
          Come si legge nel frontespizio del libro “Homo dieteticus”, dell’antropologo Marino Niola, “siamo entrati nell’era di Homo dieteticus. Crudisti, sushisti, vegetariani, vegani, gluten free, no carb: fra etica e dietetica la ricerca del modello alimentare virtuoso è diventata la nuova religione globale. E come tutte le religioni nascenti produce continue contrapposizioni, scismi, eresie, sette, abiure. Ciascun credo si ritiene l’unica via verso la salvezza. E verso l’immortalità. O almeno quel suo succedaneo salutistico che chiamiamo longevità. Così anticipiamo il giorno del giudizio e facciamo del dietologo una sorta di Dio giudice. O di Dio una sorta di dietologo improprio, che dispensa premi e castighi qui e ora. Ecco perché la dieta non è più una misura di benessere, ma una condizione dell’essere”.
          E ancora Niola. “In una società secolarizzata come la nostra, da cui è svanito ogni orizzonte trascendente, religioso o laico, la sacralità si è ormai trasferita al corpo, che è diventato il simulacro di Dio. Il tabernacolo di un culto a sé che ha messo l’Io al posto del Dio, rendendo nel contempo ciascun individuo responsabile della cura e della conservazione del simulacro».
          Inoltre, sostiene l’antropologo, il desiderio di rinunce alimentari potrebbe essere una reazione all’abbondanza di cibo, senza precedenti, di cui gode il mondo industrializzato: «Il fatto è che in una società come la nostra il grande nemico non è la fame, ma l’abbondanza. Che si porta dietro il suo minaccioso carico di sensi di colpa, fobie e idiosincrasie».
          “Prendi un alimento, eliminalo del tutto, e vedrai che la tua vita cambierà. La carne, per esempio. Oppure il latte, i carboidrati, o i dolci. Meglio ancora: individua un ingrediente comune nei cibi di largo consumo, proietta su di esso tutti i tuoi malanni o disagi, e comincia la battaglia. Come l’olio di palma. Ma anche il glutine, il lievito, il glutammato di sodio. Più che perseguire il bene, si tratta di rifuggire il Male. Vegetariani (niente carne), vegani (niente cibi di origine animale), gluten-free (niente glutine), paleo-diet (niente di “moderno”, dove per “moderno” s’intende successivo alla Rivoluzione del Neolitico, quella che introdusse l’agricoltura 12 mila anni fa), gli anti Ogm (niente cibi geneticamente modificati) e, nel caso più estremo, i sedicenti brethariani (niente cibo, punto). Libera nos a malo” (Anna Momigliano).
Homo dieteticus
          Stare a tavola con un dieteticus è deprimente: l’unico argomento di discussione è la dieta, la sua, lui sa tutto, ti vuole dire tutto e te lo dice e non cessa di valutare con malcelato biasimo il nostro regime alimentare, salvo poi, la prossima volta, esaltare la sua “nuova” dieta in spregio a quella che fino a prima era tanto glorificata, novelli talebani del gusto sono intolleranti e manichei, insoddisfatti e punitivi.
          La degenerazione di questo stato si può trovare nell’”homo pharmaceuticus” il quale cerca nel cibo la prevenzione e/o la cura verso le malattie.
          Il cibo diventa così una possibile farmacia furba e intelligente. Nel piatto si vedono pasticche, supposte, sciroppi, pillole, pomate e iniezioni; il cibo è selezionato non più per il sapore ma per i benefici medici che ne possono derivare, è una continua rinuncia al piacere della tavola e quindi della convivialità, un neo-cinismo culinario che anziché all’ascesi terrena intesa come superiore spiritualità, porta inevitabilmente ad una sorta di lucida paranoia esistenziale, una psicosi persecutoria sostenuta soprattutto da articoli prelevati dai media, social e no.
          Ovviamente dietro il fenomeno c’è chi lo cavalca e spinge, non solo medici ma soprattutto, eccola là, l’industria dell’alimentazione cosiddetta “sana” che deve piazzare costosi prodotti come fitoterapici, antiossidanti, riequilibranti intestinali come il colostro e alcuni ceppi di probiotici, antigenici: soldi e tanti.
          La stessa industria del cibo che ci ha spinto ad abbandonare i prodotti locali e di stagione per inseguire il mito della globalità culinaria a basso costo e bassa qualità, quindi dannosa per la salute, ci spinge verso altri prodotti, ovviamente più costosi per tappare le falle dell’alimentazione errata da essa stessa determinata.
          Dall’incrocio tra il dieteticus e il pharmaceuticus nasce l’homo hortoressicus.
          In un sistema del benessere, la sensazione è quella di onnipotenza, ma la mancanza di limiti si traduce nella necessità di imporre a se stessi dei limiti: non mangio carne, non mangio glutine, non mangio latte, per esorcizzare il mio disagio.
L'aspirazione dell'Homo Veganensis
          Nel 1997 lo psichiatra Steven Bratman coniò il termine l’“ortoressia nervosa”, per descrivere l’ossessione per le “diete sane”, legato a un disturbo dell’ansia, cioè alla necessità di esercitare il controllo alla propria esistenza.
          Se per i celiaci l’astensione dal glutine è una necessità, per l’ortoressicus questa astensione fa bene a tutti a prescindere.
          Occorre capire dove sta il confine tra chi, magari anche sbagliando, intende semplicemente seguire una dieta sana e chi è invece è guidato da un’”ossessione”.
          Il prof. Levinovitz, studioso di religioni, la mette giù in termini più esistenzialisti: “Fatti una domanda: alla fine della tua vita, ti renderà felice pensare al tempo che hai sprecato preoccupandoti di ciò che mangi? Al tempo che hai trascorso davanti allo specchio chiedendoti quale dieta ti avrebbe reso una persona migliore? Conosco persone terrorizzate dall’idea di partecipare a una cena o a una riunione di famiglia perché temono di entrare in contatto con cibi malsani o impuri. Questa è la mentalità dell’ortoressico”
          L’ortoressia è stata proposta come forma patologica per la prima volta da Steve Bratman nel 1997, dietologo che si autodefinisce "ex-ortoressico" e che ha formulato un questionario allo scopo di identificare quella che lui ritiene essere una psicopatologia.
          L’hortoressicus, per seguire un regime così duro deve essere dotato di una grande forza di volontà e questo lo fa sentire estremamente sicuro delle sue convinzioni e superiore alle persone che non hanno un simile autocontrollo.
          “Una persona che si riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa si può sentire altrettanto pio di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto” afferma il dr. Bratman.
          Per contro, se l'ortoressico rompe il suo voto di alimentazione sana e soccombe al desiderio di un cibo “proibito”, si sente colpevole e impuro. Questo lo induce a punirsi con regole di astinenza ancor più severe. Si tratta di un comportamento simile a quelli delle persone che soffrono di anoressia o bulimia nervosa, salvo che gli anoressici e i bulimici si preoccupano della quantità di cibo consumato, gli ortoressici invece della qualità.

Ortoressico all'ultimo stadio
          Risulta molto difficile che la persona affetta da ortoressia riconosca questo come problema e di conseguenza si rivolga ad uno psicologo, essa è invece convinta della giustezza delle proprie scelte al punto di farne un succedaneo fanatico di una religione della sottomissione.
          Per molti Europei, la salute rappresenta attualmente una variabile molto importante nella pianificazione del menu. Come trovare il giusto equilibrio tra il mangiare sano e l'ossessione per il mangiare sano?
          Come per molti altri aspetti della dieta, la chiave è il buon senso e la moderazione. I cambiamenti delle scelte alimentari devono essere effettuati gradualmente e in modo adeguato ai gusti e allo stile di vita della persona.         
          Un'alimentazione più sana deve avere un effetto positivo sulla salute senza ridurre i piaceri della vita o influire sui rapporti con gli altri.
In sintesi:
  • Non esistono “cibi cattivi” o “cibi buoni” – normalmente le sostanze cattive sono dei veleni e perciò non si possono ritenere dei cibi.
  • Mangiando cibi selezionati non ci assicura la salute e non si sconfiggerà per forza la morte. E' importante non mangiare in modo errato, ma la sola alimentazione non può assicurare una buona salute. Non siamo solo “ciò che mangiamo” ma siamo anche "ciò che nasciamo".
  • Non esistono modelli validi per tutta la nostra vita. Ad ogni fase della vita abbiamo bisogni diversi.
  • Ogni persona deve poter scegliere il proprio fabbisogno alimentare tale che possa essere compatibile con la propria qualità di vita. Ogni persona ha una reazione diversa ai diversi tipi di cibo e i cibi stessi hanno caratteristiche che possono variare nel tempo.
  • Ricordiamoci che mangiare bene è un diritto, non un peccato; Si può sconfiggere il sovrappeso concependo il cibo come un concetto positivo. Se si fermasse il sovrappeso, si eliminerebbe uno dei principali fattori di rischio in patologie gravi e diffusissime. Anche se avere uno stile di vita sano può aiutare a mantenere una buona salute, tuttavia ciò non è sufficiente per sconfiggere alcune malattie gravi come il cancro oppure la sclerosi multipla.

1 commento:

  1. Chiara e drammatica visione della decadenza del genere homo e dei guasti della brutta industria alimentare

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