mercoledì 27 agosto 2014

Diversità o Identità?


Qualche giorno fa leggevo gli Epigrammi di Marziale, ed in particolare gli "Xenia", una sorta di bigliettini di accompagnamento ai regali per gli ospiti, e mi ha molto meravigliato, piacevolmente direi, la grande quantità di specialità gastronomiche ben note alla cultura latina.
Salsicce lucane, prosciutti della Marsica, anguille del Garda, orate ed ostriche di Lucrino, rombo di Ravenna, frutti di mare e ricci di Miseno, formaggi dei monti Vestini, di Trebula in Sabinia, di Sarsina, di Luni; e poi, rape di Norcia, cipolle dei Marsi, Pompei e Tuscolo, asparagi di Pozzuoli e di Ravenna (coltivati), porri di Taranto e di Ostia, cavoli di Ariccia, di Cuma e di Pompei, fave Marsicane, lenticchie di Gela, olive del Piceno, olio di Venafro, semola Campana, sale di Ostia, e i vini, del Piceno, della Sabinia, di Sorrento, di Falerno...
La cucina italiana si caratterizzava, già allora, per la grande varietà di prodotti che "marcavano" un territorio e di quel territorio ne caratterizzavano anche la cultura e l'economia.
Questi prodotti "giravano" per l'Italia e venivano esportati da una regione all'altra e la diffusione, anziché diluirne la presenza sui mercati in una sorta di mescolanza omogenea, ne caratterizzava invece la diversità nel confronto con gli altri prodotti anche simili.
L'Italia dei cento comuni diventa anche l'Italia dalle mille ricette; la grande varietà di tradizioni gastronomiche, figlie delle divisioni territoriali e politiche, è l'elemento che maggiormente caratterizza la nostra cucina e che non trova uguali nel mondo.
Nelle tristi corsie dei super-ipermercati troviamo invece solo prodotti della grande distribuzione, frutti di tecniche industriali; conosciamo il valore energetico di quello che mangiamo, ma del "sapore" non vi è nessun elemento caratterizzante.
Sugli scaffali delle megastrutture, tutti ugualmente monotoni e anonimi, sono presenti solo alcune delle specie dei nostri prodotti, quelle più facili e veloci da produrre, da imballare e vendere, quelle specie ibridate che garantiscono colture intensive a basso costo e resistenza al trasporto; ed il sapore, la biodiversità, la produzione artigianale? Quelle non contano, quelle sono un optional per noi, ormai eccentrici mangioni, mentre i moderni, quelli sempre "in linea", si cibano sano, bio, senza grassi e senza gusto. 
Alcuni prodotti, poi, come l'aglio o la cipolla sono stati ormai banditi dai sapori delle giovani generazioni, impegnate, come sono, in rapporti in cui l'apparire è più importante dell'essere.
La cucina italiana invece si caratterizza proprio per le "diversità" dei prodotti e delle tradizioni gastronomiche (basti pensare alle decine e decine di varietà di cipolle, patate, pomodori ed alle centinaia di ricette legate a quegli ortaggi), ma è proprio questa "diversità" che rafforza l'identità e ne caratterizza la firma di: Cucina Italiana.
E' come passeggiare tra le tele dell'impressionismo: i colori sono tantissimi, le tavolozze differenti, le pennellate e i segni diversi, i quadri dissimili per atmosfera, soggetto, dimensioni e stile - quello riconoscibilissimo dell'autore - ma emerge chiaramente che si tratta di impressionismo.
La cucina italiana è come la pittura di un periodo o di un movimento: riconoscibile nella diversità ma profondamente identitaria, ricca di colore e attraente come nessun'altra proprio per la territorialità dei sapori e la sottolineatura delle differenze.

A proposito:
Ziti spezzati alla genovese di zio Carmine


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